lunedì 26 settembre 2016

“SOPRA UN PONTE DI NULLA”: LUCE E ASSENZA NELLA POESIA DI ANNA MARIA ORTESE

Anna Maria Ortese 
Di Carla Cenci

[PRIMA PARTE]

«Deve sempre ritornare il mattino? Mai non finirà la
violenza di ciò che è terrestre? [...] Misurato fu alla luce il suo tempo; ma senza tempo e senza spazio è il dominio della notte».1
L'inno di Novalis alla notte, alla vita senza confini che il giorno inutilmente spinge nei recinti dell'apollineo, esprime pure senza scarti il valore simbolico che la cifra notturna progressivamente assume nell'opera poetica di Anna Maria Ortese, spesso analogicamente accompagnata dalle altre assai connotate figure della luna e del mare. «E ovunque spinga / lo sguardo, luce [...]. Ma non basta / alla mia mente, ché la luce è indizio / di vita, lotta e decadenza. E l'urto / sento di folle, e premono sul cuore / tutti i verdi pianeti, e sento il forte respiro di quei mari [...] / Limite a questa vita, o Notte, o puro / silenzio! Cuore / [...]  Limite, senza termine! Profonda, / profondissima culla! Tu che generi, Notte, quest'alba!»2
Il testo è rappresentativo della tensione romantica che attraversa tutta la produzione in versi della Ortese, dove lo stile è spesso prepotentemente effusivo, mirato all'espansione del sentimento e del patetico, in alcuni casi iperbolicamente visionario. Anche la 'verticalizzazione' dei contenuti, protesi verso le due opposte direzioni dell'alto e del basso, dell'aspirazione trascendente e dello scavo nel profondo dell'esistenza, procede verso la stessa direzione privilegiando non solo tematiche esistenziali e panico-naturalistiche, ma anche filosofiche e morali, metafisiche e religiose.

La figura della notte e di quelle affini per valore evocativo introducono quindi ad una prima comprensione dell'universo poetico ortesiano; non a caso i due libri che ne raccolgono l'opera hanno come titolo Il mio paese è la notte (1996)3 e La luna che trascorre (1998, a cura di Giacinto Spagnoletti), ambedue per le edizioni Empiria.
Nell'introduzione al primo libro l'autrice abbozza insieme un'idea di poetica e un giudizio critico, secondo cui le poesie ivi contenute, «tranne alcune eccezioni, non furono mai composte, obbedirono a un impulso espressivo o emotivo. [...] Non furono, di conseguenza, mai veramente rivedute [...]. Almeno una metà sono di nessun rilievo. Il motivo per cui le ho conservate tutte, credo stia in questo: che, dal lontanissimo '32-'34 hanno accompagnato tutte le stagioni, o quasi, della mia vita, e preceduto la scrittura dei libri in prosa.»4 Parole che chiaramente illustrano lo stile in gran parte spontaneo, immediato di questa sua produzione, in contrapposizione con la raffinatezza della pagina in prosa. Tuttavia esempi di maggior controllo formale, specie nel secondo libro che ha recepito anche i suggerimenti del critico curatore, non sono del tutto assenti, e in particolare in quei testi che vanno dagli anni Cinquanta in poi. Lo stesso valga per i contenuti che, da una prediletta problematica esistenziale, miticamente proiettata sulle onnipresenti  immagini della natura, si spostano gradualmente verso quelle situazioni metafisico-filosofiche e religiose a cui abbiamo accennato.

Giacinto Spagnoletti, nella prefazione a La luna che trascorre, pone giustamente l'accento non solo sulla natura romantica di questa poesia ma anche sul rilevante influsso che la personalità e lo stile di Leopardi hanno avuto su di essa: «Per la Ortese [...] Leopardi fu un punto di riferimento, che nella sfera dei suoi sentimenti sempre mossi e turbati da eventi d'imprevedibile portata, assunse l'autentico carattere di un sostegno morale e di un nutrimento stilistico.»5 A riprova di ciò, proprio sull'esempio della canzone leopardiana, si dipana nel testo che segue la riflessione sulla solitudine, sull'effimero, sul male esistenziale:
«Primavera ben presto / sarà fra noi; le sere / s'allungheranno tiepide e una grande / luce vedrai / nelle finestre limpide fiammare. / [...] Questa la primavera? E i miei capelli / già lentamente splendono al soave / tocco del tempo [...] / Che tempo fu? Che strano / paradiso mai quello? / Ricorderai tu, lenta, /mentre la festa aumenta e nelle case/scopre la luna il viso alle fanciulle [...] / Strana bene è la vita, / reprimendo lamenti, / e mirando la gran festa, dirai.»6
Sono versi degli anni Trenta che, insieme alla maggioranza dei componimenti coevi, ben documentano la loro ascendenza leopardiana. Ascendenza che però ci sembra preponderante fino agli anni Quaranta, perché, torniamo a sottolineare, nelle prove successive è doveroso registrare un distacco. La stessa autrice avverte: «A iniziare dalla seconda metà della raccolta il paesaggio intorno muta: non è più il paese mediterraneo, e le emozioni della giovinezza contano poco, o non ci sono più. C'è l'ansia di qualche altra verità, c'è la paura, la solitudine e la notte, soprattutto come ispirazione, tregua, speranza7
Per la Ortese quindi il mutamento è nell'elezione delle immagini deputate a dire il proprio mondo interiore, ma che noi riconosciamo anche stilisticamente. Pur dentro un orizzonte che resta fino alla fine romantico, l'autrice sposa progressivamente espressioni più composte, abbandona troppo facili automatismi retorici, fino a raggiungere in qualche caso un registro che, per il tono scarno e al contempo teso al profondo, si potrebbe definire sabiano. La poesia «Circo equestre», appartenente ai componimenti degli anni '70 e da cui è tratto il verso eponimo della prima raccolta, insieme alla ormai intensa connotatività attribuita alla notte è testimone significativa di tale mutamento: «Il mio paese è la notte. / Del giorno so appena / un rosso dolore che evade / da muri di pena. // Datemi scale sottili / che al mio paese riportino, / oscillando dolcemente. // Circo equestre il mondo, / baraccone di zingari, / d'ombre incendio e di maschere, / mai s'addorme. »8
Analogamente un altro testo, posto nella produzione del periodo '53-'60, documenta in parte il distacco di cui  parliamo, dove non solo la metrica della canzone leopardiana fa spazio al verso libero, ma subentrano anche termini attinenti alla sfera del quotidiano: «Dov'è che ho ascoltato di notte il grido del lattaio, /ho sentito passi sul selciato di un buon uomo, / e il sole era ancora nei pozzi delle montagne, / attingendo l'acqua freschissima delle tenebre? Rosso giallo giallo rosso come un'arancia [...]»9

Molti dei componimenti degli anni Trenta fecero inizialmente parte del tessuto narrativo de Il Porto di Toledo - Ricordi della vita irreale, uscito nel 1975 dopo una lunga e furiosa elaborazione. «Sono figlia di nessuno»10: questo l'esordio di Damasa, la narratrice-alter ego del libro, incipit sulla traccia non tanto di una condizione di orfanezza (Damasa ha padre e madre), quanto di sradicamento, emblematico di tutta tana condizione umana epocale. Nel suo labirintico e controverso itinerario il testo dipana il motivo dell'illusorietà dell'esistenza e del tempo e l'inconoscibilità del loro significato ultimo; all'interno di una dialettica sogno-realtà, già da tempo assai cara all'autrice, nell'irrealtà del reale sono veri solo il dolore e il desiderio di salvezza, che esprime il sogno. Pure, nell'ondosità dell'essere, figurata costantemente dal paesaggio delle marine, del porto, del vento e della pioggia, emergono a tratti presenze di luce, spiragli di bellezza, speranze; che però subito riaffondano nell'oscurità del mare, senza lasciare in superficie alcuna significazione, denotando il tragico enigma che sortisce per la Ortese la vita umana: intuire l'esistenza di un significato originale dell'essere, vederne le tracce e non poterlo conoscere.
Qui si palesa inoltre l'altra accezione ortesiana della luce, priva del carattere oppositivo alla notte che abbiamo riscontrato, con la sua connotazione di limite e misurabilità razionale, nei versi citati in apertura. Invece, come l'alba, è tutt'altro che estranea allo sfondo notturno costituito dal mare e dagli altri elementi 'oscuri' (il vento, la pioggia, il groviglio fatiscente delle costruzioni portuali), ne è piuttosto figlia, messaggera del mistero originale che a lui perennemente ritorna.
Squarcio di luce e pratica del sogno, reale nella realtà irreale, è anche l'arte letteraria, in cui hanno un ruolo non secondario le prove poetiche o «espressioni ritmate» secondo l'accezione prescelta da Damasa-Ortese: «In esse non vi è nulla che non si potrebbe dire in righe continuate, o anche in margine a un libro di conti; ma esse, per me, costituiscono, col loro malinconico vuoto, ciò che pochi diruti piloni sono per un ponte, su acque abbandonate. E su quel ponte di nulla io devo ora passare, se voglio ritornare [...] in quel tempo dove giace la mia Toledo».11
Evidente la funzione memoriale del poetico (parallelamente ricordata dalla Ortese nella citata prefazione alla prima raccolta), il quale è però anche occasione di consolazione e felice libertà: «Queste espressività, e solo queste espressività, mi calmavano. Dicendo la pena, la pena se ne andava. Perciò sentivo lo scrivere come una benedizione. [...] Ah, era bello! Non solo la disperazione se ne andava, ma io ero un'altra, e una veloce libertà mi sollevava. E riguardo a questa libertà tanto amata, [...] da apparire pavimento stesso e tetto della vita, e a questo espressivo che dentro tale libertà camminava [...] sentivo che era in essi qualcosa di fondamentale, di immutabile, quasi non fosse l'eterno essere a cui tutti ci si conduce, che un esprimersi eterno, un liberamente camminare eterno».12

L'esercizio della creatività, in questo caso letteraria, è  quindi propedeutico, come del resto ogni altra fruizione della bellezza, al destarsi repentino nell'uomo del senso dell'immortalità, e della libertà che ne consegue. Ma la Ortese, pur consapevole di ciò, non cede al facile compiacimento estetico, dimostrando un singolare attaccamento al dettato morale della condivisione del dolore, profondamente convinta che «non vi è espressivo che salvi; e sia uomo o donna, giovane o vecchio, [...] devono patire l'universale umile patire, rendendosi essenzialmente amici del vivente, e sua protezione. Solo da ciò [...] potrà nascere [...] un nuovo vero espressivo.»13 Se l'arte quindi è fonte di gioia, è squarcio di luce nel fitto dell'esistenza, non però è sufficiente a salvare l'umano nella sua integrità e lascia senza risposta il grido della sofferenza universale. Questo grido è per l'autrice così prioritario che un'arte incapace di tenerne conto, illusa di preservare autonomamente la propria significatività, non può che degenerare e avvizzire. [Continua - Vai alla seconda parte



Note
Novalis, Inni alla notte - Canti spirituali, Milano, Mondadori, 1982, p. 71.
2 «Terra oltre il mare» in: A. M. Ortese, Il mio paese è la notte, Roma, Empiria, 1996, p. 163.
3 Il titolo della silloge riprende il verso iniziale di una poesia degli anni '70, che dà anche il nome alla vasta sezione interna comprendente i testi dal 1953 in poi. La raccolta ha vinto nel 1997 il Premio Carlo Betocchi.
4 A. M. Ortese, Il mio paese..., cit. p. 5.
5 G. Spagnoletti, Introduzione a: A. M. Ortese, La luna che trascorre, Roma, Empiria, 1998, p. 7.
6 «Primavera ben presto» in: A. M. Ortese, La lima..., cit., pp. 54-5.
7 A. M. Ortese, Il mio paese…, cit., p. 5.
5 «Circo equestre», ivi, p. 157.
9 «E mi alzai ridendo», ivi, p. 112.
10 A. M. Ortese, Il Porto di Toledo, Milano, Rizzoli, 1975,
P. 9.
11 Ivi, p. 14.
12 Ivi, p. 22
13Ivi, p. 20.


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